Lo sviluppo dei diverticoli è presumibilmente correlato ad uno spasmo della muscolatura intestinale; il conseguente aumento della pressione determina una estrusione della mucosa nei punti più deboli della mucosa stessa (zone di penetrazione delle piccole arterie).
Nei pazienti asintomatici, nei quali la presenza di diverticoli sia stata rilevata casualmente all’esame endoscopico o radiografico, non esistono ragioni che in qualche modo giustifichino l’adozione di provvedimenti terapeutici né la necessità di un follow-up particolare. I pazienti sintomatici in genere lamentano disturbi addominali non specifici come crampi e gonfiore, talora accompagnati da stitichezza e diarrea.
In alcuni casi il dolore localizzato nel quadrante inferiore dell’addome, più spesso sul lato sinistro, risulta aggravato dall’assunzione di alimenti e alleviato dalla defecazione o dalla espulsione di gas intestinali. Per definizione questi pazienti non manifestano sintomi acuti intensi e protratti nè segni di infiammazione e di infezione come febbre o neutrofilia, indicanti l’esistenza di una diverticolite. Quest’ultima rappresenta una evenienza temuta, anche se rara: a causa della ritenzione di feci nel sacco diverticolare si possono infatti verificare una erosione e una infiammazione/infezione secondarie con le complicanze correlate (perforazione, ascesso, peritonite, fistole e sanguinamento).
In questi casi si deve “trattare” necessariamente l’infezione con un antibiotico, per via orale (nei pazienti meno gravi) o per via endovenosa.
Sulla base dell’osservazione che l’assunzione di alimenti troppo raffinati e poveri di scorie può costituire un fattore predisponente all’insorgenza della diverticolosi, è prassi comune consigliare una dieta ad elevato contenuto di fibre.
Sulla possibilità di prevenire la comparsa di episodi di diverticolite o le sue complicanze con l’impiego profilattico di antibiotici non assorbibili (es. neomicina, neomicina+bacitracina, paromomicina, rifaximina) non esistono studi clinici adeguati.
Il farmaco più frequentemente prescritto a questo scopo è la rifaximina. Nell’unico studio controllato condotto su 168 pazienti con diverticoli, la rifaximina, somministrata al dosaggio di 400mg x2/die per 7 giorni al mese e associata ad una dieta integrata con fibre vegetali ha comportato un miglioramento significativo dei sintomi addominali (gonfiore e dolore) .
Nei pazienti trattati con un antibiotico si è osservato un “trend statisticamente significativo” a favore della riduzione del rischio di nuovi ricoveri in ospedale6. Sotto il profilo strettamente metodologico, per poter contare su informazioni più solide si dovrebbero impostare studi controllati, randomizzati, prospettici che però partano da un presupposto teorico plausibile. La “sterilizzazione” dell’intestino con impiego di antibiotici non assorbibili dovrebbe trovare la sua giustificazione nel fatto che l’eliminazione dei batteri possa prevenire la diverticolite e le complicanze ad essa associate. Una simile ipotesi necessiterebbe, tra l’altro, di un utilizzo a lungo termine o a tempo indefinito di antibiotici; appare infatti altamente improbabile pensare di poter “sterilizzare” l’intestino con una terapia antibatterica ciclica. Poiché, tuttavia, non è la presenza di batteri a causare lo sviluppo dei diverticoli né la diverticolite, ma è la rottura della barriera mucosa di uno o più diverticoli, dovuta a vari fattori, non esiste il razionale per questo approccio terapeutico, né ovviamente per la realizzazione di studi adeguati. È, semmai, la rottura della mucosa che va prevenuta, quando possibile, con le misure dietetiche citate in precedenza. Inoltre, l’impiego cronico, sia pure intervallare, di antibiotici comporta inevitabilmente un rischio elevato di comparsa di resistenze batteriche con potenziale danno aggiuntivo per il paziente nel caso in cui dovesse verificarsi una complicanza infettiva.
A questa carenza di conoscenze “evidence based”, nel nostro paese fa tuttavia riscontro la diffusa pratica di prescrivere gli antibiotici non assorbibili, a cicli di trattamento (una settimana al mese) nei pazienti con diverticolosi sintomatica. Tale approccio terapeutico non solo risulta poco giustificabile od addirittura potenzialmente dannoso, ma non viene neppure menzionato nelle più recenti, e autorevoli, linee guida dell’American College of Gastroenterology sulla malattia diverticolare3.

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